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Per Aspera Ad Veritatem n.23
Il conflitto mediorientale tra terrorismo e guerra.

Intervista a Ernesto GALLI DELLA LOGGIA


D. Il recente riacutizzarsi della situazione mediorientale, con le analisi e i commenti che ne sono seguiti, ha confermato l'impressione che il pregiudizio storico e culturale sia uno degli ostacoli di maggior peso sul percorso di pace, già oggettivamente difficile. Vorremmo dunque approfittare dell'opportunità offertaci da questa intervista per entrare in tale problematica, attraverso il Suo punto di vista, come sempre originale ed efficace, e lasciando sullo sfondo i temi generali del conflitto. La prima questione che vorremmo sottoporLe riguarda il ruolo del mondo arabo. Alcuni studiosi hanno evidenziato come il problema palestinese sia il risultato, piuttosto che la causa, del conflitto arabo-israeliano. In particolare, molti ritengono, richiamando i ben noti episodi di discriminazione subiti dai palestinesi in diversi stati arabi, che il vero ostacolo alla creazione di uno stato palestinese sia la conflittualità interaraba e non la politica israeliana. Qual è la sua opinione sui rapporti fra i palestinesi e il mondo arabo?

R. La conflittualità interaraba è stata in effetti una costante dello scenario mediorientale. Per comprendere in che modo questo fattore abbia esercitato un ruolo decisivo, occorre volgere lo sguardo al passato, osservando come l'entità palestinese sia stata in effetti utilizzata dai paesi arabi in chiave anti-israeliana e per regolare i rapporti di forza all'interno dello stesso mondo arabo. Rammento che quando nel 1948 fu costituito lo Stato d'Israele i palestinesi ancora non esistevano come entità politica. Non esisteva un movimento politico palestinese ma esistevano invece i paesi arabi, proprio quelli che hanno immediatamente dichiarato guerra allo Stato neo costituito. Un'accelerazione decisiva verso l'arabizzazione si è verificata nel 1956, per effetto dell'alleanza d'Israele con gli anglo-francesi. Tutti ricordano che ci fu in quell'anno un'operazione anglo-francese contro Nasser e che Israele si mosse al seguito dei due paesi europei. Questa circostanza, naturalmente, ancor di più depalestinizzò la questione della presenza di Israele in quell'area. Infine, credo sia in larga misura diventata una questione araba dal 1967 in poi, quando immediatamente dopo la guerra dei sei giorni è iniziata la vera crescita di una presenza politica palestinese. Tutti i paesi arabi hanno costituito una loro dépendance all'interno del movimento palestinese per cercare di condizionarlo e utilizzarlo secondo le proprie direttive. è questa la realtà che abbiamo tuttora davanti. Anche oggi siamo in presenza di una serie di formazioni politico-militari, all'interno dell'area palestinese, ciascuna delle quali ha propri referenti e finanziatori nei paesi arabi, mi riferisco soprattutto alla Siria e all'Iraq. Ognuno ha i suoi palestinesi che adopera in concorrenza con le politiche degli altri gruppi. Proprio questo è uno degli elementi fondamentali che impedisce la pace. Qualora pure si potesse raggiungere un'ipotesi plausibile di pace, immediatamente le formazioni armate palestinesi che dipendono da quegli Stati arabi non interessati ad una stabilizzazione della situazione entrerebbero in azione. Sono convinto che quando Arafat denuncia il fatto che gli attentati sono anche contro i palestinesi, in maniera appena velata vuol dire anche questo, ossia che ci sono formazioni che hanno interessi che prescindono da quelli dei palestinesi, in relazione a come questi interessi sono da lui interpretati. Se si accetta come verosimile tale stato delle cose, il problema dei problemi rimane il fatto che l'entità politica palestinese non è stata capace in tutti questi anni di dotarsi di una sua autentica, vincolante, rappresentatività politica. Arafat non è riuscito a trasformare il movimento palestinese creando l'embrione di un'entità politica effettiva, affrancandolo insomma dalle sue origini di movimento di agitazione a base militare e guerrigliera. Perché ci sia un'entità politica effettiva è necessario che chi detiene l'autorità sia innanzitutto in grado di farsi obbedire. In altre parole non possono esserci persone o gruppi che promuovono iniziative politiche e militari autonome. Questa è una condizione assolutamente necessaria per il raggiungimento della pace. Solo su queste basi l'entità politica palestinese può avere una credibilità negoziale. Se non si è in grado di imporre al proprio interno le decisioni adottate al tavolo delle trattative, quale autorità si può invocare, chi si rappresenta? Ecco il nodo del problema. Mi domando se esista un'effettiva Autorità Palestinese e al tempo stesso quali rapporti questa sia in grado di gestire con segmenti e fazioni interne che rispondono ad altri obiettivi. Ho d'altro canto l'impressione che per qualsiasi leadership palestinese il problema di fare la pace con Israele equivalga alla pressoché ragionevole certezza di firmare la propria condanna a morte. Se ciò è vero, ecco spiegati alcuni aspetti apparentemente di difficile interpretazione, come la famosa trattativa di Camp David con Barak e Clinton, che sembrava avviata al successo. Tutti ricordano come l'ottimismo diffuso subì una doccia fredda quando inopinatamente Arafat rilanciò la questione del diritto dei palestinesi a ritornare in Israele. Il leader palestinese non poteva non sapere che chiedere una cosa del genere significava far saltare tutta la trattativa. Arrivati al dunque, qualsiasi autorità palestinese è consapevole che, stando così le cose, sottoscrivere la pace significa segnare la propria fine, non solo politica. Siamo insomma in presenza di una totale intersezione tra situazione interna del mondo palestinese e presenze, pressioni esterne degli Stati arabi, tra l'altro non coalizzati e con obiettivi diversi e confliggenti. L'unico elemento che può vagamente unire i paesi arabi, spendibile come pseudo unità nei confronti delle rispettive opinioni pubbliche, è la continuazione della situazione attuale, ossia lo scontro frontale con lo Stato d'Israele. Il permanere dello scontro, del resto, si configura quale necessità vitale della politica estera dei paesi arabi che si fonda, com'è noto, sul mito dell'unità araba. Mito che politicamente riveste grande significato ma che sarebbe gravemente minato dall'ammettere l'esistenza di interessi divergenti. Un accordo di pace porterebbe alla luce del sole questa realtà, con il conseguente problema di rapporto tra le varie leadership e le rispettive opinioni pubbliche, per decenni educate nel mito della grande unità araba contro l'imperialismo americano e Israele, in questo senso assimilati. Si aprirebbero, insomma, scenari certamente non graditi ai governanti arabi. Bisognerebbe, ad esempio, fare i conti con la natura interna di questi regimi, mentre l'antagonismo anti-israeliano consente di mimetizzare e di occultare la realtà delle cose. Tale antagonismo è dunque l'unico elemento che consente di tenere sotto controllo la rivalità interstatale araba che si gioca all'interno dello scontro palestinese.

D. L'interesse strategico dello Stato israeliano ad estendere il proprio ruolo di potenza regionale non potrebbe costituire un fattore decisivo per far prevalere quelle posizioni che mirano, al suo interno, a chiudere la questione palestinese?

R. Penso che l'interesse israeliano sia sempre stato quello di chiudere la questione, beninteso a certe condizioni. Soltanto un pazzo potrebbe immaginare che questo non sia l'interesse di Israele. Sottolineo, a determinate condizioni, che in verità sembravano ad un certo punto essersi realizzate almeno con Egitto e Giordania. Tuttavia occorre fare i conti con la fortissima strumentalizzazione, come del resto capita non di rado negli affari della politica, che complica in modo incredibile la questione. Tale strumentalizzazione, credo di averlo sufficientemente chiarito nella precedente risposta, nuoce a mio avviso in primo luogo alla causa palestinese, perché mantiene congelata la situazione in una condizione di perenne cancrena. Altri ostacoli rilevanti non vanno del resto trascurati. Vorrei citare, tra questi, il caso dei finanziamenti delle Nazioni Unite, compresi quelli provenienti dall'Agenzia per i profughi, nonché gli altri molto cospicui dell'Unione Europea. Si tratta di milioni e milioni di dollari che sono stati versati da cinquant'anni a questa parte, ma non risultano aver modificato le condizioni di vita dei profughi palestinesi. Se questi milioni di dollari fossero stati ripartiti fra i singoli capifamiglia palestinesi, costoro avrebbero potuto assicurarsi una vita più che decente in uno dei numerosi paesi arabi. Offrire finanziamenti ad Arafat e poi all'Autorità ha comportato innanzitutto una corruzione spaventosa all'interno dell'amministrazione palestinese, lasciando purtroppo permanere le popolazioni locali in condizioni miserabili. L'opinione pubblica ha la diffusa percezione che i profughi palestinesi vivono in condizioni di grande precarietà per colpa di Israele, ma è un falso. In realtà vivono così perché ciò è coerente con l'interesse politico della leadership palestinese. Solo se si tengono bloccate in miserabili campi profughi cinquecentomila persone si dispone di una massa di manovra pronta a tutto o quasi. Immaginiamo cosa sarebbe successo a suo tempo nel nostro Paese se i circa quattrocentomila profughi dell'Istria, invece di essere assorbiti sull'intero territorio nazionale, fossero stati confinati a Trieste, a venti chilometri dal confine. Ci saremmo trovati di fronte ad una situazione esplosiva. Il mondo arabo è ben più grande dell'Italia. Non avrebbe potuto assorbire, in sessant'anni, quattrocentomila persone? In un'estensione territoriale che va dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano? Mi sembra assurdo pensare il contrario.
La verità è che si è portato avanti un gioco sulla pelle dei palestinesi che sono gli unici a pagare, naturalmente non il gruppo dirigente intorno ad Arafat, bensì quelli che vivono nelle condizioni di degrado che conosciamo.

D. Restando sul versante israeliano, un altro punto critico destinato ad avere influenza per una soluzione condivisa può essere la questione del fondamentalismo ebraico, affacciatasi prepotentemente con l'assassinio di Rabin. Molti studiosi hanno affrontato il tema della mistica del territorio e dell'esilio, che è emerso spesso come una costante degli atteggiamenti politici dello Stato di Israele, insieme alla sensazione talora diffusa di isolamento psicologico (“tutto il mondo è contro di noi”). In che termini vede la questione religiosa nella democrazia israeliana?

R. Sono convinto che il fondamentalismo ebraico esista e che non sia emerso solo con l'episodio drammatico dell'assassinio di Rabin, ma a ben vedere anche in altre occasioni. Forse ricorderete, ad esempio, l'uccisione di alcune decine di arabi, mi pare ad Hebron, presso la Tomba di Giacobbe. Precedentemente ricordo il caso del rabbino Kahk, che addirittura predicava una forma di razzismo antiarabo. Tutto ciò fa parte della storia, ed è uno degli aspetti di straordinaria complessità della situazione. Il punto è tuttavia che il sistema politico israeliano è stato finora in grado di prendere misure adeguate per tenere a freno tutto questo. La più marcata diversità nell'impatto dei due fondamentalismi è desumibile proprio dalla vicenda dell'assassino di Rabin, sottoposto a regolare processo e condannato all'ergastolo. Arafat, al contrario, non ha la possibilità di mettere in prigione nessuno. Questa la differenza, piaccia o meno, tra i due fondamentalismi. Se è vero che esiste un fondamentalismo ebraico, anche se io credo in misura numerica minore, è certo che il governo democratico legittimo d'Israele è in grado di prendere misure adeguate per tenere a freno tale movimento. Ricordo che quando fu conclusa la pace con l'Egitto, i coloni che avevano i loro insediamenti nel Sinai non volevano andarsene, anche per motivazioni religiose. Arrivarono i bulldozer dell'esercito israeliano, spianarono tutto quanto e portarono via queste persone.
Una presenza fondamentalista sionista di tipo religioso è comunque un fenomeno abbastanza nuovo. Tradizionalmente il sionismo aveva due anime: l'una socialista e l'altra di destra nazionalista, ma entrambe laiche. Rammento che sia Jabotinsky che Ben Gurion erano su posizioni politiche confliggenti, una di destra e l'altra di sinistra, tuttavia accomunate da una visione laica. Dovremmo semmai sottolineare che l'ebraismo ortodosso religioso era contrario al progetto sionista, si opponeva all'idea sionista, perché giudicava blasfema l'idea di un ritorno in Palestina, nella terra dei Padri, prima della venuta del Messia. Ciò veniva considerato non conforme al credo religioso. La conseguenza è che ancora oggi una parte di fondamentalisti religiosi ebraici non riconoscono lo Stato d'Israele. Un ulteriore elemento interessante che merita di essere segnalato è la comparsa, negli ultimi venti anni, di un fondamentalismo sionista religioso, spesso di origine ebraica americana, che ha assunto un certo peso in particolare dopo la guerra del 1967, quando in quegli ambienti è nata l'idea di un grande Stato d'Israele che ricalcasse nelle sue dimensioni i confini biblici. Nonostante ciò, io penso che al dunque questo fondamentalismo non abbia incidenza decisiva né nell'orientamento dell'opinione pubblica né quale condizionamento del Governo di Gerusalemme.

D. Il tema dell'antisemitismo ha accompagnato anche le pagine più recenti del conflitto, riproducendo un clima culturale che sembra perseguitare il popolo ebraico. In questo contesto, l'estrema destra europea, riprendendo la propaganda filonazista che vide per teatro la Palestina alla fine degli anni trenta, in chiave antiebraica, sembra sposare la causa palestinese proprio in funzione anti-israeliana. C'è uno spazio politico, a suo avviso, per queste posizioni?

R. Tradizionalmente, in particolare a partire dal 1967, da quando cioè si è verificata la presenza massiccia di Israele sul palcoscenico internazionale ed è iniziata una fase di conflitto assai aspra e continua con gli arabi, la causa palestinese raccoglie le simpatie tanto dell'estrema destra neonazista radicale quanto dell'estrema sinistra radicale. La prima per ragioni di antisemitismo, la seconda per ragioni di antimperialismo. Questi due filoni convergono: il primo si veste naturalmente di antisemitismo; spesso tuttavia anche la posizione di sinistra antimperialista e antisionista finisce per assumere sfumature antisemite. Non c'è dubbio comunque che l'estrema destra abbia una primogenitura in questo senso. Non mi pare poi secondario considerare che a destra l'antisemitismo si stia colorando negli ultimi anni di antiglobalismo. Anche in questo caso abbiamo un concorso strano di elementi diversi, una coincidenza con le idee di estrema sinistra, nella misura in cui l'opposizione è al globalismo quale sistema di dominio economico-finanziario ritenuto sostanzialmente di matrice ebraica. Si ipotizza cioè un grande disegno politico-finanziario-economico, avente il suo epicentro negli Stati Uniti, caratterizzato dalla finanziarizzazione dell'economia e interpretato secondo vecchi stereotipi che vedono negli ebrei i rappresentanti del capitale finanziario contro il capitale industriale e produttivo. L'estrema destra ha sempre coltivato tutte queste idee, non le ha mai abbandonate ed esse confluiscono nella posizione anti-israeliana odierna. D'altra parte, questo orientamento è favorito dal fatto che, altra grande novità, abbiamo assistito alla nascita di un antisemitismo all'interno dei paesi arabi, che per intenderci potremmo definire all'europea. è noto come i paesi arabi, storicamente, non presentassero orientamenti antisemiti. Nel corso degli anni cinquanta si è verificato tuttavia un assorbimento di personaggi del mondo nazista nei servizi segreti e nel personale di polizia arabi. Con Nasser, ad esempio, personale tedesco proveniente dalla Stasi, ex nazista, è andato ad organizzare i servizi segreti. è ormai provato un apporto tedesco all'organizzazione delle polizie politiche e dei servizi segreti dei paesi arabi. A seguito della grande umiliazione rappresentata per il mondo arabo dalla sconfitta del 1967, questa forma di antisemitismo ha fatto la sua comparsa e ha rapidamente preso piede. Ho definito questa forma di antisemitismo all'europea, in quanto basato sostanzialmente su testi elaborati in Europa, quali i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, una sorta di Bibbia dell'antisemitismo, se così si può definire, diventata un bestseller in tutti i paesi arabi. L'anti-israelianismo si è così facilmente colorato di antisemitismo, rafforzando ancora di più la sintonia con i movimenti dell'estrema destra europea, la quale, paradossalmente, ha peraltro una delle sue ragioni d'essere nella forte opposizione all'immigrazione araba. Sicuramente, ad esempio, il movimento di Haider presenta tratti di antisemitismo, probabilmente anche perché nasce in un contesto geostorico, quale quello austriaco, con una forte tradizione antisemita. Non considererei l'antisemitismo come un dato connotante in generale tutti indistintamente i nuovi movimenti antiimmigratori. In qualche caso dubito addirittura che essi possano essere iscritti nella destra. Il caso di Fortuyn è molto significativo: egli rappresentava un'opposizione all'immigrazione in nome della difesa dei diritti civili. Nell'incremento dell'immigrazione araba intravedeva un pericolo per il mantenimento di questi diritti, considerati abitualmente cavallo di battaglia della sinistra piuttosto che della destra. A ben vedere, si sta delineando una situazione di profonda modificazione delle tradizionali culture politiche nei diversi schieramenti. In Francia, il movimento di Le Pen mi sembra più che altro xenofobo, anche se Le Pen stesso ha rilasciato inequivocabili dichiarazioni negazioniste sulla seconda guerra mondiale e sui campi di sterminio che rendono il suo caso abbastanza simile a quello di Haider. D'altro canto, l'Austria e la Francia sono due Paesi in cui l'antisemitismo ha avuto radici profondissime. Forse sono le due realtà in cui è stato più forte. Se ci riferiamo all'Austria, credo che l'antisemitismo abbia avuto influenza maggiore che nella stessa Germania. Ma anche per la Francia, l'episodio di Vichy non può essere considerato un evento casuale, dato che ha raccolto umori che provenivano da almeno un secolo di storia francese. Per ritornare al centro del discorso, non sempre una posizione anti-immigrazione, insomma, si sposa con una posizione antisemita. Anche perché si dà il caso che tra gli immigrati non ci siano ebrei. Probabilmente se ci fossero ebrei le cose potrebbero cambiare, ma per ora non se ne vede il minimo sintomo.

D. Sul lato palestinese del conflitto, molti hanno lamentato come la carenza di adeguate politiche internazionali abbia favorito le posizioni radicali di ispirazione fondamentalista islamica, orientate al terrorismo, che hanno guadagnato crescenti consensi nei Territori, influenzando la stessa capacità della leadership palestinese di gestirne l'evoluzione verso una forma statuale e determinando il sostanziale fallimento dell'ANP. Condivide un tale giudizio?

R. Credo che nel fondamentalismo militante sia presente anche una protesta contro la strumentalizzazione politica che molti Paesi arabi hanno fatto della questione palestinese, anche se poi inevitabilmente lo stesso fondamentalismo religioso è strumentalizzato da qualcuno. La strumentalizzazione è innanzitutto legata al bisogno di finanziamenti, fattore che mi sembra in qualche modo decisivo. In realtà, occorre considerare che la questione palestinese è diventata un'arma vincente presso l'opinione pubblica. Il problema è che all'opinione pubblica araba, intesa nella sua generalità, nessuno ha mai spiegato la realtà delle cose perché quel sistema dei media non è democratico, risponde soltanto al volere dei Governi. In questi Paesi, dall'Indonesia fino al Marocco, si è formata un'opinione pubblica che non ha conoscenza reale dei termini esatti del problema, che non è aiutata a sceverare il mito dalla realtà. Avviene anzi il contrario. Penso che il fondamentalismo, che ha dimostrato di essere in ripresa in questi ultimi anni - ma forse è bene non dimenticare che la svolta fondamentalista riprende vigore con Khomeini - rappresenti nella sostanza una forma radicale di protesta contro l'Occidente. è un'ideologia religiosa e come tale si può combinare con tutti i punti di vista politici, un'arma insomma troppo forte per non essere adoperata, perché evita di fare i conti con incapacità ed insufficienze storiche del mondo islamico e serve a proiettarle nella dimensione mitologica dello scontro generale. Non è certo un caso che i terroristi siano in maggioranza molto giovani, più esposti al richiamo perché fondamentalmente idealisti. Cosa più della religione fa appello all'idealismo, al sacrificio di sé? Si tratta in altre parole di uno strumento molto potente. Altro punto di forza dell'elemento religioso è l'opportunità offerta di non fare distinzioni. Occidente, America, Israele, tutti possono essere messi sullo stesso piano. Le visioni nette, che spaccano il mondo in due, sono sempre destinate ad avere grandissima fortuna, soprattutto nelle situazioni di grande tensione. Il radicalismo è una forma di chiarezza che aiuta la gente a farsi un'opinione laddove, invece, operare dei distinguo è più difficile e meno entusiasmante. Consideriamo poi che quella islamica è una forma di religione particolare, in quanto priva di un'autorità centrale religiosa che possa in qualche modo indirizzare o frenare. Realizza, per così dire, una religiosità molto democratica e diffusa, in qualche modo incontrollabile, affidata a figure di “santi”, di uomini religiosi che sono autorizzati a gestire il lascito religioso nella maniera che vogliono. Questo rappresenta un ulteriore problema. Qualcosa di analogo può dirsi d'altro canto anche per l'ebraismo, anch'esso privo di clero, di una gerarchia ufficiale e centralizzata.

D. Lo scenario tuttavia è cambiato. Prima i palestinesi facevano la lotta armata, mentre adesso abbiamo i kamikaze. Anche negli equilibri interni la rilevanza dell'elemento religioso è mutata.

R. Sicuramente senza l'elemento religioso è difficile pensare che possano esserci i kamikaze. Gli attentatori suicidi possono esistere soltanto se c'è una motivazione religiosa. I kamikaze sono uno strumento militare che rischia di avere fortissime conseguenze politiche, anzi già le ha prodotte. Non fosse altro per questo, l'elemento religioso è da considerare decisivo.

D. Negli anni passati si sono rivelate piuttosto complesse le relazioni tra il Vaticano da una parte, lo Stato d'Israele e i palestinesi dall'altra. Com'è noto, un'importante questione riguarda la città di Gerusalemme, mentre solo in tempi recenti lo stato d'Israele è stato ufficialmente riconosciuto da parte della Santa Sede. Individuare i caratteri salienti del rapporto tra la Chiesa cattolica e le comunità ebraiche ed arabe può aiutarci per una migliore comprensione della situazione attuale?

R. Credo che il tardivo riconoscimento dello Stato d'Israele sia stato un grande errore diplomatico da parte della Santa Sede. Siamo partiti da una situazione in cui il dodici/quindici per cento degli arabi-palestinesi erano cattolici. Il Vaticano si trovava nella condizione di decidere quale tipo di ruolo far giocare a questa presenza. In teoria, si sarebbe potuto benissimo pensare ad un ruolo di mediazione tra arabi e israeliani. Ma questo ruolo, che sarebbe stato di grande importanza per la Santa Sede, è stato reso impossibile dal mancato riconoscimento diplomatico d'Israele. Ciò ha determinato, in pratica, l'impossibilità per Israele di accettare gli arabi cattolici quale controparte mediatrice. Particolare non secondario, ha significato anche schiacciare la comunità cattolica araba sull'altra parte, cioè quella musulmana. Un pessimo investimento, che ha comportato anche la drastica diminuzione percentuale di questa presenza. Nel contesto attuale la comunità cattolica araba è ormai agonizzante, ridotta al lumicino. A un certo punto, per ragioni generali, la Santa Sede è stata costretta a riconoscere lo Stato d'Israele ma sono certo che sarebbe stato meglio fare questa scelta quarant'anni prima. Non va trascurato inoltre che con questo riconoscimento tardivo il Vaticano si è inimicato gli arabi senza acquistare la fiducia degli israeliani. Per tutto questo ha pagato un prezzo altissimo la comunità cattolica araba. Perciò, ritengo che le possibilità di mediazione della Santa Sede siano oggi molto scarse. Il potere di mediazione può essere esercitato soltanto da chi può costituire una minaccia ovvero offrire dei vantaggi. Chi non può fare né l'una cosa né l'altra quale potere può esercitare? La Santa Sede non può offrire nulla né minacciare nulla. Credo che i buoni rapporti che Arafat ha intrattenuto con la Santa Sede rientrino più che altro in un cerimoniale politico ma non rappresentino nulla di più. La verità è che la posizione cattolica si è molto indebolita negli ultimi decenni in tutto il mondo arabo, dove nel passato erano invece presenti forti comunità, dalla Siria alla Terra Santa. L'offensiva politica del nazionalismo arabo e quella religiosa del fondamentalismo, hanno molto indebolito tali comunità. La Santa Sede ha poi fondamentalmente fallito nel costruirsi una posizione di terzietà anche perché ha sbagliato alcune mosse. Ad esempio, penso sia stato un errore nominare come Patriarca un arabo. Innegabilmente, sono stati commessi errori anche da parte degli israeliani. Ad esempio, questi non hanno valutato adeguatamente il significato che avevano per il mondo cristiano i luoghi santi. Gli israeliani hanno sempre gestito questi luoghi come strumento di una sorta di rivalsa storica nei confronti dei cristiani, facendo pesare il loro controllo su quei luoghi. Pur senza mai arrivare a vere e proprie forme di ostacolo al culto, tuttavia attraverso forme di disturbo, di indifferenza essi hanno sottovalutato l'effetto che tutto ciò poteva avere, ed ha avuto, di radicare nella Santa Sede una posizione larvatamente filoaraba. D'altro canto, per essere onesti occorre dire che alla posizione filoaraba le scelte della Chiesa non hanno portato niente di buono, non hanno rafforzato la comunità cattolica araba nè le hanno fatto assumere un ruolo rilevante.
Per quanto riguarda l'internazionalizzazione di Gerusalemme, credo che la soluzione di questa questione dipenda dalla soluzione generale del problema, che stimo molto difficile. è molto più ragionevole pensare ad una sorta di divisione della città piuttosto che alla sua internazionalizzazione.

D. Diversi attori sono coinvolti nella ricerca di un percorso di pace, ognuno portatore di una specificità ed anche di interessi ben definiti, destinati ad avere un peso al tavolo delle trattative, come l'ONU, l'Unione Europea, gli Stati Uniti, la Russia e il mondo arabo. Quale ruolo vede per ciascuno di loro?

R. Nella mia valutazione complessiva, sono pessimista. Credo che questa situazione di non guerra e non pace continuerà. Non credo che possa esserci alcun attore esterno che possa risolvere la situazione, se non i due attori principali, ossia gli arabi e gli israeliani. Oppure i palestinesi, forse è proprio da loro che potrebbe venire un cambiamento. Allo stato attuale, però, mi pare sinceramente impossibile pensare che con la continuazione degli attentati Israele possa addivenire a posizioni più disponibili. Quale entità politica sottoposta a simili attacchi si ammorbidirebbe? E gli attentati cesseranno? Arafat riuscirà a riacquistare il controllo della situazione e mettere queste persone nell'impossibilità di nuocere? Oggi nulla fa pensare che questo possa accadere. E allora che cosa può effettivamente cambiare? Sicuramente la situazione attuale, come è stato dimostrato da tutti i sondaggi, non predispone in maniera più pacifica l'opinione pubblica israeliana. Il fronte palestinese mi sembra abbastanza fermo sul potere del tutto formale e vuoto di Arafat e sull'attività delle sue formazioni militari e terroristiche.

D. Alcuni pensano che la soluzione potrebbe prescindere da un accordo globale, scorporando le varie questioni. Concludere, ad esempio, prima un accordo sui Territori e poi procedere al resto.

R. Sì, ma l'accordo sui Territori sarebbe la pace. Avremmo l'accordo degli accordi, quello cioè che riconosce l'autorità palestinese sui Territori. Il problema per Israele è essenzialmente diplomatico. è chiaro che nel momento in cui gli israeliani si ritirassero dai Territori non avrebbero più alcuna carta da giocare ad un tavolo di trattative per la pace. Per quale ragione un'entità araba dovrebbe garantirgli la pace se già ha ottenuto i Territori?

D. Ma gli attori internazionali, prendiamo ad esempio l'Unione Europea e gli Stati Uniti, quale reale interesse hanno a spingere per la pace piuttosto che accettare una conflittualità permanente?

R. Gli Stati Uniti hanno interesse alla pace perché con la pace possono ragionevolmente pensare di spaccare il mondo arabo e isolare gli arabi radicali. Ma proprio per questa ragione gli arabi radicali non vogliono che ci sia la pace. Non hanno interesse che questo accada. Alla fine, chi può davvero decidere in ultima istanza se dire sì o no ad una pace è soltanto Israele, beninteso tenendo presente i vincoli oggettivi che ci sono alle sue decisioni. Gli Stati Uniti non possono decidere. L'elemento determinante è senza dubbio alcuno Israele e l'opinione pubblica israeliana. Tuttavia, per acconsentire alla pace è necessario che sia assicurato un verosimile quadro di sicurezza, con opportune garanzie. Gli Stati Uniti possono scrivere le garanzie, ma non sono loro l'elemento decisivo. Solo a quella condizione - le garanzie - l'attore decisivo, cioè Israele, può accettare la pace. Per quanto riguarda l'Europa, mi sembra che il suo ruolo finora sia stato quello di erogare finanziamenti, tra l'altro solo a favore degli arabi, cosa che non mi sembra possa proporre il vecchio continente come elemento importante della trattativa. Viceversa, gli Stati Uniti mantengono capacità e armi di pressione su entrambi i fronti. Non dimentichiamo che gli Stati Uniti sono i “padroni” degli armamenti israeliani, o almeno di una loro parte significativa.
In conclusione, credo che solo un miracolo potrebbe risolvere la situazione. Noi siamo abituati a pensare che per ogni problema ci sia una soluzione. Invece ci sono problemi che non hanno soluzione, che si trascinano nel tempo e la soluzione, magari, arriva attraverso un elemento del tutto estraneo alle condizioni iniziali. Nel nostro caso, però, credo possano sopraggiungere solo elementi negativi, peggiorativi. Certo, potrebbe anche capitare che sorga una leadership palestinese autorevolissima, che interrompa questo circuito di condizionamento esterno e che spazzi via le varie formazioni militari. Questo può accadere, ma allo stato attuale nulla mi fa pensare che sia possibile. Perché ci sia la pace è necessario che ci sia un interesse prevalente da entrambe le parti a concluderla piuttosto che a proseguire la guerra. Ma da parte araba e palestinese è molto più forte l'interesse politico oggettivo a continuare la guerra. Tutto il mondo politico dell'immaginario e della propaganda araba si è costruito sullo scontro generale con Israele. Ci vorrebbe un personaggio di proporzioni politiche spiccatissime per cambiare questa realtà. Il problema è che il mondo arabo è al tempo stesso un'unità e una molteplicità, per cui non basta un presidente di un paese arabo, ad esempio dell'Egitto o della Siria, che sia disponibile a trattare. Gli altri leader arabi devono essere d'accordo e questo non è facile. Come ricordavo proprio all'inizio di questa conversazione, l'ostilità permanente è l'unico elemento che consente di tenere sotto controllo le rivalità interarabe perché queste vengono concentrate tutte contro il nemico esterno, cioè in senso antisraeliano. Qualsiasi leader arabo che si discostasse da questa linea rischierebbe di perdere più di quello che potrebbe guadagnare. Quindi non c'è nessuna ragione oggettiva per cui si arrivi alla pace. Le ragioni oggettive militano a favore della continuazione dello stato attuale. Per ragioni morali può dispiacere all'Occidente che ci siano situazioni di morte, di eccidi,
di distruzioni, ma purtroppo questo è un punto di vista secondario. Gli attori decisivi non ragionano in base a queste considerazioni. Credo, invece, che più aumentano gli atteggiamenti benevoli e mediatori dell'Occidente nei confronti dei Paesi arabi più si contribuisce a mantenere il clima che ha dominato fino ad oggi. Una posizione che potrebbe paradossalmente indurre ad una soluzione sarebbe quella di adottare un atteggiamento “a muso duro”, che faccia capire che se continua questa situazione cesseranno i finanziamenti dell'Occidente. Il buonismo dell'Unione Europea e del Vaticano contribuiscono ad incancrenire la situazione non a migliorarla. Non dimentichiamo che, anche se si tratta solo di un aspetto formale, dopo il recente muso duro degli israeliani contro Arafat, quest'ultimo ha dichiarato di voler procedere a libere elezioni. La circostanza potrebbe insegnare qualcosa agli europei che, purtroppo, sono spesso rappresentati da una classe politica che non comprende realmente la situazione. L'Europa, ormai da cinquant'anni, è stata cancellata dallo scenario politico internazionale. Non è più abituata ad agire nella risoluzione dei conflitti, ad avere proprie forze armate, ad esercitare la propria forza. è assolutamente inadeguata ad affrontare una situazione come questa. Ricorre a strumenti e categorie mentali inadeguati e poco realistici. Gli israeliani, viceversa, conoscono molto bene il mondo arabo. Costruiscono la loro politica estera sulla base di quello che gli arabi dicono in arabo, non su quello che dicono in inglese. A Bruxelles invece, si costruisce la politica dell'Europa nei confronti dei paesi arabi sulla base di quello che i leader arabi dicono in inglese e c'è molta differenza. Gli arabi, nella loro lingua, dicono quello che pensano realmente. Analizzare e comprendere quello che gli arabi dicono nella loro lingua significa operare su elementi di realtà e non immaginari.


(*) L'intervista è stata rilasciata il 27.5.2002.

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